Dall’idea del barone Treves una passione a prova di crisi
Certo che il barone Treves de’ Bonfili, il primo presidente del Padova, l’aveva pensata giusta. Essendo lui il presidente, ma anche un giocatore e pure l’allenatore, non c’era pericolo che patisse gli stessi tormenti del cavalier Marcello Cestaro, suo ultimo e attuale successore. Perché incarnando contemporaneamente tutti e tre i ruoli, essendo insomma uno e trino, non poteva correre il rischio da presidente di esonerare l’allenatore, né da giocatore di remargli contro. Né tantomeno di telefonare di nascosto a un altro allenatore in Romania per sostituire il primo, cioè sé stesso. A meno, certo, di non rischiare il cortocircuito interno o una seria diagnosi di schizofrenia.
Eh sì, se l’erano pensata davvero bene i padri fondatori del Padova, in quel freddo gennaio del 1910. Ma la domanda che ci si deve fare oggi, esattamente cent’anni dopo, è piuttosto un’altra. E cioè: perché mai solo al Padova, tra le tante squadre dei pionieri del football in città – la Ginnastica Padovana, la Cavallotti, il Club Cesarano, lo stesso Petrarca, tutti club che pure avevano un pedigree aristocratico – è toccato di diventare grande?
Già, perché? Non certo perché il barone Treves, o il marchese Corradi suo vicepresidente, o la cinquantina di soci riuniti quel giorno in piazzetta della Garzeria fossero milionari (1.500 lire il bilancio del primo anno). Né perché il Padova tenesse i giocatori migliori, visto che i primi risultati sul campo, compreso uno 0-6 con il Petrarca, furono onestamente una schifezza. E neanche perché i futuri biancoscudati fossero esenti da problemi societari visto che l’anno dopo, il 1911, la squadra non venne iscritta a nessun campionato né giocò manco un’amichevole.
Quanto ai dissidi interni, poi, nemmeno a parlarne. Erano scissioni vere e proprie, altroché. Soci e giocatori che ti piantavano dall’oggi al domani. Addirittura la rifondazione del 1912. Roba che al confronto le baruffe ai tempi di Pilotto erano sciocchezze, e figurarsi le due-tre tensioni del Padova di oggi.
Ma allora, se non erano i soldi, né i risultati, né l’armonia dei soci, né l’assenza di problemi, perché mai il Padova è diventato «la» squadra della città, e tutte le altre invece no? Dopo cent’anni,scorrendo le foto, i pannelli giganti del Museo, gli articoli di giornale, rileggendosi anche uno per uno i 23 articoli dell’atto costitutivo che parlano di regole, di rispetto e di trasparenza, soprattutto di entusiasmo per il Gioco del Calcio, l’unica risposta possibile è una: per l’idea. E cioè la visione di qualcosa di bello, rapido, guizzante, colorato di biancorosso, frutto di sacrificio e sudore, collettivo, tutti per uno uno per tutti, integri, forti, vigorosi, gioiosi e dolorosissimi insieme. Qualcosa che unisca e appassioni.
Sì, c’era una forza moralein quell’idea, e quella forza risuonava e ha continuato a risuonare dal 1910 a oggi. Incarnandosi anche, com’è successo senz’altro nell’epoca d’oro dei «panzer» di Nereo Rocco, e forse anche in tempi più recenti. Attingendo a quell’idea e quella forza morale, il Padova continuerà a essere il Padova che i padovani saprebbero riconoscere tra mille. Lo tirerà fuori anche da quest’ultima, banalissima crisi.